Recensione del libro che racconta l'apocalisse di un soldato semplice inviato sul fronte russo nel 1942, uno dei pochi soldati prigionieri che sono tornati vivi in patria, ed uno dei pochissimi che ha scritto un diario delle proprie memorie.
Il libro racconta le vicende di Alfonso Di Michele scritte da lui medesimo pochi mesi prima di morire, nel 1993. Queste memorie sono state raccolte dal figlio, Vincenzo, e da lui pubblicate nel 2008 in un libro per i tipi dell'editore MEF di Firenze. Quindi innanzitutto va un "grazie" a Vincenzo Di Michele per averci reso partecipi del diario del padre.
Quando si parla di memorie del fronte russo il pensiero si porta automaticamente su Giulio Bedeschi e le sue Centomila gavette di ghiaccio, libro che non necessita di alcuna presentazione, e che ho letto due volte. Le memorie di Alfonso Di Michele, prigioniero in Russia, si collocano in modo complementare rispetto alle memorie di Giulio Bedeschi, nel senso che ci sono delle differenze di intenti narrativi per le quali i due racconti non si sovrappongono: Bedeschi era un ufficiale medico (richiamato) mentre Di Michele era un soldato semplice. Bedeschi, a differenza di Di Michele, non fu fatto prigioniero. Bedeschi ha fatto un quadro storico della sua campagna di Russia, mentre Di Michele ha raccontato principalmente una ricca serie di dettagli di vita quotidiana, che costituiscono il vero interesse del libro. Leggendo "Io, prigioniero in Russia", quindi, si apprendono cose diverse rispetto a "Centomila gavette di ghiaccio".
Leggendo il libro di Di Michele, ad un certo punto, si è richiamato alla mia memoria anche un altro libro molto famoso: "La spia sul tetto del mondo", di Sydney Wignall. Quando si leggono i passaggi di Di Michele sulle metodologie operative dei combattenti comunisti russi, sembra di leggere le pagine di "La spia sul tetto del mondo" a proposito dei combattenti comunisti cinesi. I due libri, scritti in epoche diverse e da autori molto diversi tra loro, si rafforzano l'un l'altro quando si tratta di descrivere il cieco fanatismo e le tecniche di lavaggio del cervello utilizzate da entrambe le grandi Nazioni.
Il libro di Di Michele è diretto, spontaneo e sincero, scritto dall'Autore in età matura, e quindi è molto obiettivo, scevro di quei risentimenti "a caldo" che, a detta dello stesso Autore, avrebbero potuto distorcere la narrazione. Di Michele, comunque, nonostante abbia scritto le sue memorie a distanza di 50 anni, è lucidissimo e dimostra di ricordare molto bene i fatti. E come avrebbe potuto dimenticarli, d'altra parte ! Si devono essere stampati nella memoria, a lui ed agli altri Reduci. Dalla prefazione di suo figlio si evince che i Reduci non amassero parlare del passato, pur ricordandolo molto bene, come risulta anche dalla testimonianza di Dante Muzi nella parte iniziale del libro. E' chiaro che i Reduci hanno visto e vissuto vicende umane troppo infernali per essere dimenticate, ma anche troppo infernali per poterne parlare.
Nella narrazione di Alfonso Di Michele vi sono passaggi commoventi, ed altri che fanno riflettere. Quando lui si trova in ospedale, privo dell'uso delle gambe per 4 mesi, uso che poi egli per fortuna riprenderà, Di Michele si chiede "perchè ?". Questo è il grande interrogativo. Oggi conosciamo bene la storia della dittatura fascista, e sappiamo bene che la risposta alla sua domanda è "per nulla". Ma nel 1943 nessuno poteva saperlo con certezza, nemmeno Churchill. E meno di tutti potevano saperlo i combattenti stessi, mandati allo sbaraglio con equipaggiamenti inadeguati alle circostanze, che sono stati causa primaria della massima parte delle morti, quelle per sfinimento e congelamento.
E i Reduci, poi, sono stati beffati 2 volte: sono andati al massacro per nulla, e quando sono tornati in patria, i pochi che sono tornati vivi, spesso a piedi, dopo anni, a guerra finita, non hanno trovato più il fascismo e la monarchia che li avevano spediti al fronte russo, ma un regime diverso che ha ignorato (se non addirittura condannato, come ignobilmente ha fatto Togliatti) il loro impegno per la patria dalla quale sono partiti per un dovere istituzionale pienamente legittimo, quello di andare in guerra quando la patria lo ordina. Eppure i combattenti sono stati trattati come se i responsabili della guerra fossero stati loro, e non il fascismo e la monarchia. Ma quegli eroi come potevano sapere... e soprattutto come potevano evitare di andare in Russia ? Semplicemente: non potevano evitarlo.
Le memorie dei Reduci fanno riflettere sulle miserie della condizione umana, miserie che tutti vogliono giustamente dimenticare, ma altrettanto giusto è il contrario: ricordare per non ripetere gli stessi errori. Quindi questi libri andrebbero imparati a memoria, non semplicemente letti, da coloro che governano le nazioni. So di pretendere troppo, naturalmente: queste persone sono ben occupate in altre faccende, e nella quasi totalità dei casi non hanno nemmeno nozioni storiche elementari.
Una considerazione finale: il fisico dei Reduci tornati vivi doveva essere d'acciaio, tipo Walter Bonatti sul K2, per aver resistito alle fatiche, alle temperature, ed allo stress cui sono stati sottoposti. E' veramente un miracolo che tanti Reduci siano ritornati. Gli altri, quelli col fisico meno resistente, sono morti per nulla, ma non sono stati per questo meno eroici degli altri.